Il bosco subacqueo di Peggy Guggenheim

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Palazzo Venier dei Leoni sul Canal Grande non assomiglia né a un vascello, ormeggiato da trent’anni e trasformatosi in ristorante alla moda con piatti sofisticati e camerieri sussiegosi, né a un costoso hotel veneziano con mobilio laccato e pavimenti in marmo, incisioni antiche e taxi acqueo privato, né alla villa di una star hollywoodiana avanti negli anni che abbia deciso di finire i suoi giorni nel comfort a Venezia, né a una boutique alla moda. Ma ancora meno assomiglia a un museo. Ciò nonostante, lo è. Non enorme. Anzi, perfino piccolo. Ma, a mio avviso, è il migliore museo di arte figurativa del XX secolo, con al suo interno tutto quanto serve. In questo caso il numero degli spazi non conta. E la lingua si rifiuta di dare a queste stanze il nome sale museali, quelle in cui risuona l’eco, si annoiano sorveglianti attempati e il parquet scricchiola sotto i piedi di frotte di turisti in attesa della loro guida. Ciò che conta, è quello che in queste piccole stanze si trova. E vi si trova raccolto pressoché tutto quanto risponde al nome di 'modernismo'. È un piccolo recipiente di pietra, ricolmo della ricca crème di un’arte nuova, terribile, assurta a segno di un secolo ancor più terribile che, impietosamente, quasi fosse una lama di bulldozer, si sia allontanato dalla pittura di tutti i secoli precedenti, indicando un nuovo sistema di coordinate culturali.

Peggy Guggenheim è una cercatrice di avventure, una leonessa del bel mondo privata del padre, finito in fondo all’oceano assieme al Titanic, un’esile americana proveniente da una famiglia di milionari, incline a cambi di luogo, consorte, amante e cerchie bohémienne, una donna che trascorse la sua burrascosa esistenza all’insegna della fascinazione per l’arte nuova, mai vista prima. Costei aveva il fiuto per il genio, un gusto eccellente e la scaltrezza tigresca di un ambizioso collezionista del 'nuovo'. Si deve in gran parte a lei se il mondo ha conosciuto Marcel Duchamp, un pazzoide eremita che, all’inizio del secolo, aveva compiuto le sue folli scoperte visuali, capaci di determinare tutta la futura evoluzione del modernismo, un artista che, partito con la Fontana del 1917, arrivò alla pop-art, al minimalismo e all’arte concettuale. Peggy aiutò Marx Ernst a diventare se stesso. Conosceva personalmente i genii della Parigi prebellica. Si accaparrò i quadri di surrealisti, dadaisti, astrattisti, futuristi e costruttivisti europei. Dopo la guerra seppe riconoscere il genio di Jackson Pollock, Mark Rothko, Roberto Matta e Willem de Kooning. Con meticolosa consequenzialità si assicurò la crème del modernismo, riempiendone il proprio recipiente. Per il 1951 fu colmo. Peggy lo sigillò e scelse un luogo, a Venezia, sul Canal Grande.

Ora, ognuno che ne abbia desiderio, può assaporare questa densa bevanda e, girando per un’oretta e mezza nelle non enormi stanze del museo, capire cos’è accaduto nell’arte del XX secolo. Malevič, Kandinskij, Duchamp, Dalí e Picasso si trovano uno accanto all’altro in queste stanze. E non ci stanno stretti.

Nel corso della sua vita intera Peggy Guggenheim ha raccolto per sé l’elisir dell’immortalità. E alla fine ce l’ha fatta. Esso si trova sul Canal Grande, in Palazzo Venier dei Leoni. Da tutto il mondo la gente si reca qui per essere iniziata ai misteri del modernismo. Ciò che più colpisce non è tanto la densità di capolavori per unità di superficie, quanto lo speciale, inconfondibile senso di accoglienza che alberga in questo luogo, in queste stanze, in questo giardino, in questo affaccio sull’acqua. Qui domina un respiro particolare, quasi che qualcuno di enorme e invisibile, cliccando su uno spropositato mouse del suo smisurato computer, avesse compresso, chiudendola, la finestra «Arte del XX secolo» e, adesso, noi entrassimo in questo spazio compresso e stradenso di decenni, biografie e destini.

Ma non è tutto.

Lo spazio compresso non esiste di per se stesso.

Il palazzo con i quadri e le sculture dei genii del modernismo è soltanto la punta dell’iceberg. Come tutti gli edifici a Venezia, esso poggia su fondamenta di legno, ossia pali confitti nel fondo melmoso del bacino lagunare. Per erigere il palazzo fu necessario trasportare decine di tronchi, piantarli nel fondo e, soltanto dopo, costruire. La cosa più sorprendente è che la quantità di tronchi, trasportati a suo tempo dalla Croazia e mutatisi in fondamenta del palazzo, coincide con il numero delle opere esposte nella collezione Peggy Guggenheim. Sono esattamente 329. Un tempo tutti erano alberi, crescevano nei boschi, stormivano con il loro fogliame, davano riparo agli uccelli e agli scoiattoli. Poi sono stati tagliati, amputati dei rami, caricati su barche, portati a Venezia e piantati a testa in giù nel fondo marino. Possibile che ciò sia successo soltanto affinché questi, che un tempo erano magnifici alberi, privati della loro bellezza, piantati nella sabbia melmosa, sorreggano docilmente l’edificio? Negli altri palazzi le cose stanno così, ma non in questo. Qui è successo ciò per cui la lingua dell’uomo fatica a trovare una spiegazione. Dalí diceva che il senso dei suoi dipinti è talmente profondo da sfuggire a una analisi logica. Anche ciò che è accaduto nel museo Guggenheim è capace di scuotere le basi della logica terrena. Lo si può definire un miracolo. Ma è meglio ricordare il perspicace Ermete Trismegisto e la sua Tavola smeraldina: «Ciò che è in alto è come ciò che è in basso». Egli intendeva non soltanto le stelle, gli atomi e le forze incorporee, ma anche l’equilibrio tra mondi opposti, sorta di clessidre contenenti opposti ontologici che passano l’uno nell’altro e si nutrono delle loro diversità. Nel caso di questo museo si tratta del mondo dell’arte e di quello vegetale. Essi si sorreggono vicendevolmente.

 

Vladimir Georgievic Sorokin è uno scrittore, drammaturgo e pittore russo. Ha vinto numerosi premi tra i quali il Premio letterario internazionale Maksim Gorky con il romanzo Ghiaccio

 

- Traduzione in italiano di Alessandro Niero -