Venice 2012

di

 


Dondola.
Dondoladondola.
Dondoladondoladondola.
Finalmente ho osato. Dopo dieci volte
a Venezia, prendo la mia prima gondola.
Di mattina presto quando bevo un caffè
all’angolo delle Procuratie Nuove, sono accanto a me:
i gondolieri. Gran discorsi sulla partita di ieri nel dialetto veneziano impossibile da seguire. Fa freddo sull’acqua, un cappuccio caldo aiuta. Fuori sono allineate le loro snelle barche nere che sembrano uccelli, le teste di uccelli a prua (perché sono teste di uccelli, guardate bene) rivolte verso l’isola dove abito io. Perché non ho mai voluto? Perché è il cliché assoluto di Venezia?


Se così fosse, sarebbe infantile. Per via delle facce delle persone in gondola? Perché, che cos’hanno quelle facce? L’insopportabile beatitudine dell’obiettivo finalmente raggiunto, il battesimo veneziano assoluto, per farne parte una volta per tutte?
In gondola con Thomas Mannn, Marcel Proust, Paul Morand, Henry James, Ezra Pound, Louis Couperus? ‘Ich bin
auch ein Berliner,’ qualcosa del genere? O: se ci vedessero
i nostri vicini in Kansas, a Bielefeld, Wakayama,
Novosibirsk o Barneveld, quel genere di espressione?
Come se, laggiù sull’acqua, si stringessero sulle spalle
l’intera città come un mantello, un quieto e dondolante
istante di soddisfazione, fluttuazione, acquatici sussurri
intorno a te nei canali più tranquilli, l’uomo invisibile
dietro di te, il traghettatore con i suoi forti movimenti ritmici. E tuttavia gran parte delle persone non hanno trovato l’espressione giusta, anche se fanno del loro meglio.
Può essere solo perché sanno di non andare da nessuna parte e che tra poco torneranno di nuovo nello stesso punto dal quale sono partite. Che faccia fai quando le persone sul vaporetto,
che stanno andando da qualche parte, ti guardano?


Avevo usato solo il traghetto, anche una gondola, ma solo
da una sponda all’altra del Canal Grande. Sali vacillando, la mano ferma del gondoliere ti prende per un braccio, cerchi di stare in modo da non perdere l’equilibrio, o ti siedi
un momento sul sedile stretto per non perdere la faccia.
La faccia o l’equilibrio, tutto qui. No, non l’avevo ancora mai fatto. L’anno scorso, quando a Venezia nevicava e noi avevamo un appartamentino vicino a Campo San Samuele, sul retro che dava su una calle stretta di quello che un tempo doveva essere stato un palazzo (uno spazio scuro e nascosto dietro un’inferriata con un cane che abbaiava tutte le volte che entravamo, e quasi senza vista sull’acqua) già di mattina presto vedevo passare dei giapponesi, stretti sotto gli ombrelli,
la neve sui cappelli e i berretti, raggianti di felicità.
Il gondoliere cantava O sole mio mentre si puliva la neve
dagli occhi. Lo ammiravo. La gondola passava lentamente,
e io sapevo che non avrebbero mai dimenticato quel tragitto,
mi piacerebbe sapere come si dice ‘mai’ in giapponese.
Se non sei stato in gondola, non sei mai stato a Venezia.
Tutti fotografavano tutti: la prova. In Giappone compri
il pacchetto viaggio con gita in gondola inclusa. Ma era questo il motivo per cui non l’avevo fatto? Cinesi inzuppati sotto la pioggia, americani con una bottiglia di prosecco? Avevo cercato di trovare una scusa razionale per la mia assurdità, una gondola è un mezzo di trasporto, la prendi per andare da qualche parte, come una volta, quando non c’erano ancora i vaporetti. Andare un po’ a zonzo in barca, non poteva essere solo quello, mentre in genere io giro sempre per la città così, senza meta. Una gondola ancora più nera delle altre, con una cassa da morto coperta da un drappo ricamato d’oro, diretta all’isola dei morti di San Michele, quella era veramente l’essenza del trasporto. Tutto il resto era turismo, ostentazione, teatro, roba per gli altri.


E ora? Ora eravamo noi, gli altri, ed eravamo in gondola, saliti a bordo vacillando, troppo pesanti, in fondo, la barchetta si inclina, ma la mano esperta conosce i corpi impacciati,
li fa sedere su un cuscino, la gita può cominciare e di colpo
il mondo è cambiato, è più alto di te, sulle fondamenta accanto
a te non vedi volti ma scarpe, le case si allungano, e di colpo scopri dettagli cui non hai mai prestato attenzione; un dolce dondolio si è impadronito della città, vedi i muri come pelle viva, ferite, piaghe, cicatrici, guarigione, vecchiezza, storia, alghe nere, alghe verdi, l’oscuro disotto dei ponti, marmo
e muratura, le altre barche, la vita sull’acqua in una città
di pietra e d’acqua. Il gondoliere recita i nomi di chiese
e palazzi a voce bassa, come una litania di un vecchio sacerdote che non hai bisogno di ascoltare. A volte provo a seguire
sulla carta dove siamo, ma perdo subito il segno.
Quando giriamo un angolo stretto, a volte grida forte ‘Oi!’
come se fossimo in pericolo di vita, ma io mi sono abbandonato da tempo, come un bambino nel ventre della madre ascolto
il gorgoglio del liquido amniotico e non voglio nascere mai più.

 

Cees Nooteboom è uno scrittore, poeta e giornalista olandese, più volte candidato al premio Nobel 


- Traduzione di Laura Pignatti -

 

La versione integrale dell'articolo - come testo, podcast ed e-book - è pubblicata in inglese, francese, olandese e italiano su www.citybooks.eu, un'iniziativa deBuren