Il punto di vista dell'eternità

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A Venezia, forse per fortuna, non si conservano più di una o due tele del Canaletto. Quasi tutto ciò che dipinse si trova nel regno Unito per opera e grazia del console Joseph (o Giuseppe) Smith (1674-1770), che aveva passato già quarantaquattro anni nella città prima di essere onorato con quel titolo diplomatico che piuttosto fu lui ad onorare.

Ma sebbene il visitatore attuale non possa contemplare qui le immagini del Canaletto e debba accontentarsi delle riproduzioni o della propria memoria, può invece vedere numerosi paesaggi veneziani della stessa epoca, ad opera di Gaurdi, Marieschi, Carlevaris, Bellotto, Miraglia, nei vari musei della città. E ancora, come dicevo all'inizio, può anche essere una fortuna che non veda i Canaletto, i più precisi e minuziosi di tutti, quasi fotografici. Dal momento che ciò che vede in quei quadri dei vedutisti del XVIII secolo è, incredibilmente, lo stesso che vedrà uscendo dalla Galleria dell'Accademia o da Ca' Rezzonico o dal Museo Correr. La strana sensazione produce un misto di euforia e inquietudine. E certamente, entrambe le cose si intensificano se i suoi occhi hanno visto anche certi quadri di Gentile Bellini, di Mansueti o del Carpaccio. Scopre cioè che ben poco è cambiato non soltanto in due secoli e mezzo, ma in quasi cinque. Le tele del Cinquecento gli mostreranno praticamente lo stesso che si dipingeva nel Settecento e lo stesso che vedrà nel Novecento per strada, nella realtà, quando lascerà sfinito gli interni dei musei. E il cambiamento più rilevante che potrà apprezzare sarà, senza dubbio, nei personaggi e nel loro vestiario: molto nobile e molto ecclesiastico, cappelli neri, lunghe chiome, mantelli rinascimentali, calze attillate rosse, a righe o bianche in quelli di Bellini e Carpaccio; molto borghese e molto artigiano, parrucche, code, maschere, ombrelli di tela, ampie camicie in quelli di Carlevaris o Guardi; ripugnanti bermuda e magliette piene di scritte, molto turistiche, all'esterno. Il resto, ciò che non è umano, rimane identico.

Il visitatore lo sa già in anticipo, e in certa misura è questo sentimento archeologico ciò che lo ha spinto a viaggiare fin qui. Ma, nonostante tutto, è impossibile che non si sorprenda un poco se si sofferma a pensarci o se fa questa semplice prova di guardare un paio di quadri e poi ciò che lo circonda. Venezia è l'unica città al mondo il cui passato non solo si può scorgere, intuire o immaginare, ma ti sta proprio davanti. O quanto meno il suo aspetto passato, che altro non è che il suo presente aspetto. Ma in realtà, la cosa più esaltante e perturbante di tutte è che ciò che si offre allo sguardo del visitatore è anche l'aspetto futuro della città. Ovvero, non solo – vedendola – si può vedere com'era Venezia cento, duecento e perfino cinquecento anni fa, ma addirittura – vedendola – si può vedere anche come sarà fra altri cento, duecento e certamente cinquecento anni. Così come è l'unico luogo abitato al mondo con un passato visibile, allo stesso modo è l'unico con un futuro già dispiegato.

E' davvero commovente che, nonostante questo, Venezia abbia il suo genio dell'architettura del XX secolo: Carlo Scarpa (1906-1978), nato qui. Il caso di Scarpa però è significativo: adorato dai veneziani, le sue ben riconoscibili ed ammirevoli opere sono inevitabilmente dei dettagli, il che non impedisce che i suoi concittadini, che vivono nel mezzo del più perfetto conglomerato architettonico della storia, vadano in estasi davanti a cose come il negozio Olivetti, progettato in Piazza San Marco, o davanti ai portali della facoltà di Architettura o di Lettere, o davanti all'antica aula magna (da lui restaurata) di Ca' Foscari, o davanti alla scala di casa Balboni, o davanti al cortile della Fondazione Querini Stampalia. Qui da ammirare ci sono quattro scalini; lì un tetto, là la porta, più avanti una griglia di radiatore. Questa è l'opera del grande Carlo Scarpa nella sua città natale. Nessuno tocca Venezia, come poté toccarla lui. E' la città che meglio conosce il proprio futuro, e per questo forse il passato – un passato dal peso immenso, onnipresente e sbalorditivo – non si contrappone a quel futuro identico e già conosciuto, ma alla minaccia della sua scomparsa.

Da quando venni a Venezia per la prima volta, nel 1984, ci sono sempre tornato un paio di volte l'anno o anche più, in quelli successivi. E' probabile che mi sbagli, ma ho sempre avuto la sensazione che la minaccia della catastrofe, della calamità irrimediabile, del totale annichilimento è, più che un vero timore dei suoi abitanti, un'autentica necessità. Questa apprensione deliberata, a mio parere fomentata, contagia subito i visitatori, anche i più effimeri probabilmente, che non appena mettono piede su un ponte hanno la sensazione che quello potrebbe essere l'ultimo giorno della città.

Venezia è la città più protetta ed osservata al mondo, la più vigilata, sempre auscultata. Non c'è solo un universale desiderio di conservarla, ma la si vuole anche conservare com'è. In realtà, si sa che non può cessare di esistere, che non può perdersi. Non lo permetterebbe, certamente, neppure una conflagrazione mondiale. Questa terribile certezza che qualcosa che vediamo davanti ai nostri occhi continuerà ad essere sempre lì e per di più sempre uguale, senza le necessarie dosi di agitazione e insicurezza di cui hanno bisogno tutte le imprese e le comunità umane, senza che esista la possibilità di una nuova vita né di un'inedita fioritura, una crescita o un ampliamento, senza la possibilità – insomma – di sorpresa né di cambiamento, fa sì che i veneziani abbiano «il punto di vista dell'eternità». Così lo definisce Mario Perez, il quale, nonostante il suo nome (senza accento), è una delle poche persone nate, cresciute e stabili a Venezia, che ho avuto il privilegio di conoscere e frequentare. Il punto di vista dell'eternità! La frase mi ha gelato il sangue mentre stavamo cenando: io, una sogliola; lui, salmone. Può forse esistere un punto di vista più angosciante, più insopportabile, più inumano? Io suppongo che l'unica maniera di sopportare quella certezza e quel punto di vista sia quella di cedere alla tentazione di credere nella distruzione imminente di ciò che senza dubbio ci sopravviverà.

 

Testo gentilmente concesso dall'autore e pubblicato nel libro "Venezia, un interno", Edizioni Mavida, 2012.

Javier Marías è uno scrittore, saggista e traduttore spagnolo. Ha vinto numerosi premi tra cui il Premio Internacional de Novela Rómulo Gallegos con il romanzo Domani nella battaglia pensa a me 

 

- Traduzione in italiano di Valerio Nardoni -