Due lettere mai scritte

di

Chantal Talagrand Major, veneziana d’adozione, è una psicanalista e scrittrice francese

Restif de la Bretonne e Casanova non si sono mai scritti. Ma avrebbero potuto! Queste lettere inventate fra questi due prodigi della scrittura del secolo dei Lumi vanno interpretate come testimonianza dell’effimera e delicata bellezza di quella lingua che si parlava allora, tanto a Venezia quanto a Parigi.

 

Mio caro 

Cavaliere di Seingalt, 

 

Non me ne vorrà, almeno ho il diritto di osare sperarlo, se le scrivo che la sua ultima lettera mi ha punto sul vivo! 

¶ Che cosa pensa dunque che possa scrivere, trascorsi questi tempi in cui, sotto l’abside di Notre Dame, vidi sfilare le teste degli aristocratici che ebbero la pretenziosità di credere che sarebbero stati padroni di scappare all’infernale macchina del buon dottor Guillotin che troneggia costantemente sulla piazza della Rivoluzione. Dalla mia umile finestra, in questa via tanto cara al suo cuore sin dal suo primo soggiorno qui, non potei fare altro che assistere, impotente, a quell’acqua alta che inondò Parigi del carminio più crudo. Quanto mi sarebbe piaciuto gustare l’indicibile piacere di vedere l’insolenza e la superbia di quegli infarinati (chierici compresi) castigati come loro conveniva, ma lo spettacolo di alcuni furibondi Montagnardi e Girondini, di cui le vostre maschere veneziane avrebbero ben stentato a dissimulare le rivalità sanguinarie, afflisse la mia ragione. Sì, si assistette alla nauseabonda esecuzione dei principi iscritti nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino all’epoca della tragedia del 9 Termidoro anno II che vide perire, in una nobile e silenziosa dignità, Robespierre e Saint-Just. Come scrisse quel buon Népomucène Lemercier, non ci furono Tartuffi solo per Molière! Temo persino che le fantasticherie di quell’impotente marchese imbastigliato, tale Donatien Alphonse François de Sade, uscito ben troppo presto dal carcere grazie all’abolizione delle lettres de cachet, gettino nell’oblio le nostre opere, la mia laboriosamente composta nel marmo con queste mani e la sua in mancanza di edizione. Gli serbo ciononostante una bella controversia con la mia Anti-Justine ou les délices de l’amour su cui trascorro indolentemente alcune delle mie notti. Per quanto riguarda Mes inscripcions, vi ho messo termine da molto tempo, come le avevo confidato, anche se ornano ancora i muri degli argini dell’Île Saint-Louis, perlomeno quelle offerte allo sguardo del passante. Quanto all’Histoire de ma vie, penso che, anche se ho colpito per primo, lei non tarderà cionondimeno a precedermi in notorietà. 

¶ Affido questo plico a uno dei miei cugini, arruolato nell’esercito di quel Bonaparte di cui non sarei in grado di consigliarle di fidarsi. 

 

Il suo amico di cuore Nicolas Restif de la Bretonne 

6 Fiorile anno V

 

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Gentile Signor

Nicolas-Edme,

I mesi sono volati prima che potessi prendere conoscenza della sua missiva giuntami solo ora a dux.
Il suo Corso di prim’ordine saccheggia in effetti la lombardia e anche il Veneto ed eccolo che si considera perfi- no un architetto! non si racconta forse che avrebbe concepito il machiavellico progetto di far radere al suolo la chiesa di san geminiano che è di fronte alla Basilica di san Marco e che ospita tante pitture del Tintoretto e del Veronese? Mi piace riferirle le voci che corrono già su di lui sulle gazzette vene- ziane: Tutti i Corsi non sono ladroni, ma buona parte sì! non si tratta più di incisivi che ha sulla mascella, bensì di sciabole e temo per voi che la sua ambizione tutta personale non gli monti alla corona (il mio buon maestro Crébillon, fedele, se ce ne fu uno, al dizionario dell’académie del 1762, mi avrebbe senza dubbio corretto e fatto scrivere “alla testa”). Ma in que- sti tristi tempi di tante teste tagliate, compresa quella del Ca- peto, preferisco oramai bandire quella parola! Il nostro carne- vale si è trasformato in danza macabra e la nostra Repubblica piange amaramente la dissolutezza dei nostri passati regimi. Il nostro doge Manin fu sì costretto a lasciare libero corso all’invasore che, nella sua frenesia di conquiste, ci immerse in una notte senza luna.

¶ Gradirei molto che ci incontrassimo con quel diavolo di vescovo di autun, il vostro inestimabile Talleyrand, che, appena tornato dalla lontana america, deve, come ogni buon ecclesiastico, saper destreggiarsi a piacere. È vero che noi al- tri Veneziani (e gli Inquisitori della serenissima ne sono solo un pallido riflesso) siamo stati, da sempre, cullati dall’intrigo, dal tradimento, dalle false apparenze tanto care a ogni buona diplomazia. e non sarà Roma, per una volta, a contraddirmi! Ma credo che lui solo saprà come maneggiare l’aspersorio sulla scacchiera tormentata del mondo. occorrerebbe l’alle- anza di due menti forti dai due lati degli appennini per di- sfarci, lei e io, dei tiranni che attendono solamente che giun- ga la loro ora per rimettere piede nell’esagono o nello stivale. Mi diletta sognare di un tempo in cui le province del nord e del sud si uniranno per formare una grande nazione ita- liana. Ma per ciò occorrerebbe per davvero una mano di velluto in un guanto di ferro. Talmente già mi sto infervo- rando che rivolto, come un guanto, la celebre massima che si addice per sempre al nostro buon Charles-Maurice. Vo- levo dire, ma l’avrà, con l’indulgenza di cui mi fa la grazia in considerazione del mio sciagurato francese, già corretto: «una mano di ferro in un guanto di velluto»!

Il suo devoto Giacomo

26 luglio 1797 

 

 

Traduzione italiana di Giorgia Bianchi