Sono stato a Venezia molte volte. Per questo credo fermamente di non conoscerla. Ho sempre frequentato e amato soltanto città inafferrabili. Misurato i luoghi dalla loro capacità di sorprendermi. La mia massima di riferimento è ancora oggi l’ingiunzione del poeta Roland Giguère: «non chiedere mai la tua strada a chi non sa perdersi».
A Venezia non ho mai chiesto indicazioni. Troppo zelanti i suoi abitanti. Troppo fieri per non conoscerne ogni remota calle, ogni sperso vicolo d’acqua. O forse troppo gelosi per rivelare i terreni vergini di caccia. Mi sono sempre fidato dunque del mio istinto, ho confidato nella mia percezione spaziale accontentandomi di sapere ogni volta quale fosse grosso modo la direzione giusta da seguire. Anche interpretando i miei testi di studio, i testi della tradizione ebraica, ho sempre agito con questi presupposti: confidare nell’inesauribile significato delle parole, nell’inesauribile riserva dell’essere.
Lo ammetto, questa forma mentis mi ha sempre un po’ cautelato, allenandomi alle sorprese. Ogni evento inaspettato ai miei occhi non è quasi mai devastante, quasi mai…
Lo scorso anno capitai a Venezia in una giornata d’attesa. Sapevo dell’acqua alta ma non l’avevo mai vista. I veneziani ne preannunciavano il picco in un’ora prestabilita. Mi sorprese questa visione antropomorfa, l’acqua alta dà un appuntamento al quale si presenterà in orario. Chiederà ospitalità per qualche ora prima di andarsene e i veneziani approntano le loro case, i loro negozi, i loro alberghi, per accoglierla degnamente. Sembra di primo acchito che si pulisca casa in onore dell’ospite. Fino a quel momento la mia immaginazione aveva ridotto tutto quel fenomeno a qualcosa di ridicolo e fastidioso. Una sorta di allagamento domestico su larga scala dove l’acqua sale mentre si impreca nell’impossibilità di raggiungere la vasca e chiudere il rubinetto. Pensavo alla rabbia dei veneziani, al loro precipitarsi ad arginare. Acqua salmastra e crepitante che avvelena senza abbeverare.
Invece no. Nell’albergo dove alloggio gli uomini della laguna, placidi, sgombrano i pavimenti per fare che l’acqua non inciampi, non si innervosisca. Chiudono da una parte e agevolano dall’altra. Perché quando l’acqua arriverà possa trattenersi un po’ e andarsene poi verso una cantina, una via segreta di fuga preparata da tanto tempo, come la via di fuga dell’amante nella casa di un patrizio libertino. Come in una casa veneziana.
E quando l’acqua arriva, pur grigia e incolore, mi dico: “amici miei che carattere!”. Zampilla con prepotenza dai tombini, anzi preme e sorge. Una pioggia sale, quasi cadesse, dal ventre della città. Una città dalla pancia gravida di umori e vita.
La debolezza dell’uomo è ricondurre ciò che lo spaventa, o ciò che non capisce, al suo conosciuto. E io, da buon biblista, non posso non pensare a qualcosa che fu assai più spaventoso e terribile ma che mi rassicura: il diluvio universale. Mi riporta ai dolci studi nel tepore del mio studio, attenua la sensazione sgradevole di questi miei piedi freddi e umidicci. È la storia di cateratte d’acqua che irrompono dalla terra.
Una vicenda che rabbuiata dall’annegamento di un’umanità deviata si conclude comunque nella luce: l’umanità, attraverso Noè e i suoi, si salva.
L’acqua in ebraico è màim e contiene un suffisso aim che rimanda alla sua dualità. Il nostro mondo, la nostra città, è presa in mezzo: tra acque inferiori e acque superiori chiamate cieli.
Le terribili storie bibliche sono sedate dalla pergamena che ne distilla la narrazione, che le accoglie per amplificarne il significato. L’acqua salirà ogni volta nella mente di ogni nuovo lettore.
Lo stesso accade qui. In questo albergo. Un evento di cronaca, un racconto di masserizie infradiciate, di libri intrisi e scoloriti, si annulla nell’agire metodico e nella quiete d’animo dei veneziani che parlano all’acqua della loro città madre.
E il mio assistervi, il mio scriverne, si sostanzia di lettere asciutte. Inchiostro nero su pergamena bianca.