Sono uno scrittore iperlocale che si aggira quotidianamente per le strade di Delhi. Ogni giorno vago senza meta, smartphone alla mano, alla scoperta di esperienze che si possono trovare solo qui, tra le vie e gli abitanti della mia città. Mi è capitato spesso di fare la stessa cosa addentrandomi tra i campi e le calli di Venezia, una città che considero un po’ come una seconda casa. Senza dubbio si tratta di due realtà agli antipodi; tuttavia, nei contesti più intimi e inaspettati ho trovato anche delle similitudini, a riprova del fatto che c’è molto di condiviso tra i luoghi e le persone, nonostante ogni ambiente abbia la sua identità specifica. Qui di seguito, presento dunque alcune storie parallele tra Delhi e Venezia.
Praticamente tutti gli abitanti dell’Antica Delhi vi diranno la stessa cosa: non c’è miglior pane biscottato – o paapey, come viene chiamato dai locali – di quello prodotto da Diamond Bakery, un panificio a conduzione familiare fondato più di cento anni fa, nell’anno dello scoppio della Prima guerra mondiale. Il fornaio continua a cuocere il pane secondo tecniche tradizionali, grazie alle quali ottiene un prodotto dalla croccantezza senza eguali. Non utilizza il forno, ma un tradizionale bhatti a legna così grande da permettere la cottura di trenta vassoi di pane biscottato contemporaneamente. Il prodotto finito è così delicato che la sua croccantezza si perde nell’istante in cui lo si inzuppa in un bicchiere colmo di chai latte denso. Nella luce fioca della cucina i kaarigar, vestiti con il lungi tradizionale e intenti a lavorare l’impasto, sembrano i protagonisti di un dipinto fiammingo del Diciassettesimo secolo. Quasi tutti i dipendenti dicono di passare la notte all’interno del negozio.
Mamma Giusi, papà Davide, il timido figlio Nicolò ed Eleonora – la sua allegra fidanzata – sono i gestori dell’antico panificio situato all’interno del Ghetto Vecchio di Venezia. Sono una famiglia cattolica, ma confezionano tutti i prodotti secondo i precetti della religione ebraica. Mamma Giusi confessa di non aver mai pensato bene al significato di parole come “Talmud” e “Torah”, ma sa benissimo che non bisogna mescolare la carne con il latte.
La famiglia vive lontano dal Ghetto, nella più che pittoresca Mestre, un’area esteticamente molto distante dalla Venezia a cui siamo abituati, senza canali né turisti. Papà Davide si alza tutte le notti all’una e mezza e va a prendere l’autobus diretto a Piazzale Roma; cammina fino al panificio e accende i forni. Il resto della famiglia arriva dopo qualche ora. Le giornate scorrono frenetiche tra pani, pagnotte e clienti: socievoli rabbini, avventori abituali che si fermano per due chiacchiere e turisti che entrano timidi nel negozio.
“Quella Singer ha più di cento anni”, confessa Jawaharlal Sherwat, calzolaio, indicando la vecchia macchina da cucire nera alle sue spalle. “Questa scala invece ne ha ottanta”. Il laboratorio è nascosto all’interno di un vecchio palazzo fatiscente mezzo abbandonato. È così polveroso e stipato di oggetti da sembrare il magazzino dimenticato di un museo. Le mensole e gli armadi tradiscono in modo pittoresco il passaggio tumultuoso del tempo. Parte del prezioso mobilio è trattato come se fosse spazzatura, l’unica cosa nuova sembra essere un muro ricoperto di jootis (scarpe) colorate che il signor Sherawat ha confezionato di recente.
Il calzolaio è intento a raschiare il legno in eccesso dalla suola di una scarpa su cui sta lavorando, quando si ferma improvvisamente e comincia a contare con le dita. Qualche istante dopo conclude dicendo che suo padre ha aperto bottega “quando in India governavano ancora gli angrez (gli inglesi)”. Jawaharlal Sherawat ha settant’anni, quindi è lui stesso una leggenda vivente. I suoi eredi non hanno seguito le sue orme: la figlia è avvocato. Il calzolaio confessa borbottando che ultimamente gli fanno spesso male le mani, forse “perché sono ormai troppo debole e vecchio”. Il laboratorio concluderà l’attività assieme a lui.
Ho conosciuto l’intagliatore Emilio Piacentini un pomeriggio, nella sua bottega dall’aspetto deliziosamente trasandato. Lo spazio è pieno zeppo di oggetti di legno: cornici, credenze, candelieri… Piacentini ha una settantina d’anni ed è uno dei pochissimi intagliatori rimasti a Venezia. Le pareti hanno perso l’intonaco in diversi punti, lasciando scoperti i mattoni rossi che compongono il muro. Sul tavolo si trovano decine di utensili da lavoro, uno in fila all’altro. Piacentini è immerso nella lettura di un giallo. Ha imparato il mestiere in una scuola d’arte, che ha frequentato per cinque anni, e mi dice: “Sono estremamente fiero di fare qualcosa che oggi nessuno sa più fare”. Poi apre un cassetto e tira fuori un vecchio poster con una gondola: “Ho intagliato i decori di questa gondola molti anni fa. Era un regalo del sindaco di Venezia per una città in Canada”. La bottega è riuscita in qualche modo a resistere fino a oggi. Il futuro è difficile da immaginare. La moglie di Emilio Piacentini è morta qualche anno fa, mentre sua figlia è dirigente di un’azienda di spedizioni. Seduto al suo tavolo, l’unico intagliatore del ghetto di Venezia confessa: “Mi piace il mio lavoro, mi dà gioia”, prima di rimettersi a leggere il suo giallo.
Giustamente Delhi viene criticata per l’alto livello di inquinamento. Ci sono giorni terribili, in cui l’aria che respiriamo è davvero maledetta. Ma c’è un però. Il cielo di Delhi a volte può anche assomigliare a un’opera d’arte; per lo meno in inverno, a un orario preciso e se osservato da luoghi specifici. Come ad esempio dal binario della stazione della metro di Vaishali verso le 17:30, poco dopo il tramonto. Questa sera c’è ancora luce, le sfumature e le tonalità del cielo potrebbero essere state dipinte da Monet o Turner. Sembra che l’atmosfera circostante sia stata ritoccata fino a ottenere una texture puntinista. Queste sfumature luminose, però, si dissolvono nell’oscurità che man mano prende il sopravvento. Mentre il tempo scorre, la fragilità di questa bellezza effimera provoca un profondo senso di perdita.
I paesaggi dipinti dagli impressionisti suscitano esattamente le stesse emozioni. La loro concezione del cielo non assomiglia per niente alla realtà; piuttosto, esprime le loro sensazioni interiori, ciò che vede il loro “terzo occhio”. Dunque, è ragionevole sostenere che quel cielo dopo il tramonto alla stazione di Vaishali (visto dal binario) raffiguri proprio quel tipo di opera d’arte, da assaporare e custodire per la breve durata in cui è visibile. È un momento indimenticabile.
È sera. The Delhi Walla è sulla spiaggia del Lido di Venezia, la sottile isola dove Thomas Mann ha ambientato il suo romanzo Morte a Venezia.
L’universo è calmo. Le onde dell’Adriatico si infrangono dolcemente sulla riva. Poco lontano dalla spiaggia c’è un edificio abbandonato. Ha dei minareti e una cupola. È l’Hotel Excelsior che, chiuso per la stagione, riaprirà in estate.
Qualche minuto e si fa sera. Il sole comincia a tramontare a ovest. La luna si arrampica ed esce dall’Adriatico. Il cielo e il mare sono completamente ricoperti da una strana e bellissima sfumatura di rosa e blu. Il blu si affievolisce gradualmente, lasciando spazio al rosa. Presto si farà notte.
Mentre guardo le fredde acque del mare, mi ritrovo davanti una bicicletta rovesciata. È un momento di estrema fragilità.
Dal 2007, Mayank Austen Soofi colleziona centinaia di storie che hanno come sfondo la città di Delhi e le riporta, attraverso la scrittura e la fotografia, nel suo celebre blog The Delhi Walla. Mayank Soofi scrive inoltre per l’Hindustan Times ed è l’autore di Nobody Can Love You More: Life in Delhi’s Red Light District (Penguin Books) e delle guide The Delhi Walla (HarperCollins).